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Temi: La Spiritualità Ignaziana







martedì 24 agosto 2010

A Palermo - G. PRATO - ... uomo dello Spirito

La prima volta che cominciai gli esercizi spirituali con p.Ardiri era estate: c’era caldo e tutto era deserto al Gonzaga. Lui, sorridendo, mentre passeggiavamo all’ombra degli alberi tra i viali assolati, in uno dei primi incontri, mi diceva contento: “ Mi hanno detto: - Tu rimani a custodire l’Istituto -, così ho questo spazio e il tempo per dare esercizi. È il frutto dell’obbedienza”.
Quando gli esercizi impegnavano tutta la giornata, si preoccupava di farmi preparare il pranzo, in una saletta al primo piano ed era lui personalmente a prenderlo dal montacarichi e sistemarlo su di una tavola semplicemente apparecchiata. Mi assegnò anche una piccola camera per riposare e meditare, nelle prime ore del pomeriggio, le più afose. Era l’agosto del 1981.
Una volta, recatami al pomeriggio al Gonzaga, dopo che ero stata accolta con la solita, consueta cordialità, mi accorsi di non avere più il borsellino: “ Ma…dove l’avrò perso? Ora ricordo, è stato quel ragazzino che mi ha urtato in autobus….” Lui,malgrado le mie proteste, volle darmi un portafoglio con qualche soldo dicendomi che gli era stato regalato e i soldi mi sarebbero serviti per il biglietto dell’autobus.
All’inizio del mio cammino, colpita da tanta sollecitudine, gli chiesi: “Ma padre Ardiri, perchè fai tutto questo? lo fai per il Gonzaga?” Lui mi rispose: “Anche, ma lo faccio anzitutto per la Chiesa”.
Pur essendo una persona ‘di Dio’ non aveva mai atteggiamenti scostanti su argomenti e questioni mondane, fossero più o meno importanti, tutto per lui poteva diventare mezzo per arrivare a Dio e conoscerne l’amore. Non aveva diffidenza per le innovazioni della scienza e della tecnica, anzi le considerava molto utili per vivere meglio, per avere più tempo da dedicare a Dio; potevano essere validi mezzi per progredire nella conoscenza di sé e del mondo, il primo passo verso l’accettazione di sé che egli riteneva l’inizio di una vera crescita spirituale. “L’uomo che vive è la gloria di Dio” era una massima che egli citava spesso, volendo esprimere che tutto ciò che ci è dato nella vita, se vissuto e custodito da veri figli di Dio, ci porta a incarnare fedelmente la nostra personale vocazione e a gustare la gioia di lodare Dio.
Non è da cercare la rinunzia fine a se stessa ma, anzitutto, la liberazione da quanto ci appesantisce, impedendoci di realizzare il disegno di Dio su di noi; “misericordia io voglio e non sacrificio”, anche questa era una frase a lui cara.
Amava la fotografia come me, così all’inizio del mio cammino mi incoraggiò a portargliene qualcuna tra quelle che avevo fatto, cominciammo così a ‘rompere il ghiaccio’ scambiandoci pareri e impressioni come vecchi amici.
Aveva una grande delicatezza nell’orientare, non assumeva mai toni paternalistici, non forzava, non incalzava, non giudicava, rimandava sempre la persona a se stessa, alla personale libertà e responsabilità; riusciva con grande efficacia a cogliere nelle conversazioni spirituali l’occasione favorevole per dare un opportuno consiglio.
Pur volendo molto bene ai suoi figli spirituali (si preoccupava anche della loro salute) il suo era un affetto delicato, giungeva come una brezza leggera, non suscitava il timore di deluderlo o il desiderio di compiacerlo, non induceva ad agire in un modo piuttosto che in un altro.
Aveva grande umanità nei confronti anche delle persone in condizioni difficili, come i malati, gli anziani soli, i disabili, i carcerati; di questi ultimi ricordo in particolare che, un giorno, nel corso di una conversazione, mi disse: “Queste persone che già scontano la loro pena perché devono essere private anche dei loro affetti, del conforto dei familiari, della moglie? Sarebbe giusto dar loro la possibilità di incontrarli, con maggiore frequenza e discrezione”.
Per conoscere la persona non esitava a impiegare tempo e energia: cominciava attraverso un certosino lavoro di colloqui; ricordo che io ero impaziente di cominciare le meditazioni e lui invece impiegava molti incontri solo per conoscere i miei interessi, i miei progetti, senza mai porre domande, ma sempre offrendo il suo delicato ascolto, letture, cartoline. A volte, in quel clima fraterno che sapeva creare, raccontava di sé con la fresca semplicità di un fanciullo, il pacato distacco di un maestro di yoga e, soprattutto, la profonda sapienza di un maestro di spirito.
Ciò conduceva alla costruzione di un dialogo autentico che, gradualmente, diventava sempre più intenso. Incarnava perfettamente la paternità: vigile ma delicato, attento ma rispettoso, pieno di fermezza ma ancor più di dolcezza, sembrava il custode del progetto di Dio su chi a lui si affidava. La sua sollecitudine si esprimeva in una presenza solida nella vita di chi si lasciava da lui guidare, il suo affetto si declinava dalla vigilanza paterna al conforto materno, alla confidenza fraterna.
Mai invadente ma sempre sollecito, senza pregiudizi ma sempre lucido e lungimirante, sapeva confortare, riprendere, orientare con la delicatezza del soffio dello Spirito.
Ciò incoraggiava a renderlo partecipe della propria vita senza reticenze. Quando, per alcuni anni, mio marito ed io ci avvicinammo al Rinnovamento dello Spirito gli chiesi se ciò potesse interferire con il cammino degli esercizi; lui mi confortò, regalandomi anche un libro che presentava un confronto tra il cammino degli esercizi ignaziani e il R.d.S.
Altre volte, nell’entusiasmo di chi vuole fare ‘grandi cose per Cristo’ gli confidai certi miei timori e lui mi rispose: “La messe è molta e gli operai sono pochi, tu prenditi tutto lo spazio che puoi, al resto penserà il Signore”. Apprezzava, incoraggiava e lodava ogni impegno per Cristo: riteneva fondamentale sia l’apostolato culturale che quello sociale, sapeva stare sia con le persone “importanti” che con quelle umili, con il medesimo rispetto e la stessa carità. Un giorno, durante una omelia disse di essersi sempre sentito “vicino ai poveri, forse perché le sue origini erano povere”.
E povero si era reso davvero, perché dava a piene mani il suo tempo, il suo impegno spirituale e fisico lì dove si trovava.
Così, finché si trovò al Gonzaga, non si risparmiò dedicandosi a tutti con illimitata generosità eppure, in un’altra occasione, disse che un giorno anche di quella costruzione un giorno non sarebbe rimasto nulla, perché ‘tutto passa solo Dio resta.’
Ricordava spesso la presenza della Provvidenza nella nostra vita. Benché non avesse pratica delle contingenze della vita familiare, anche qui sapeva opportunamente orientare, senza dispensare dal travaglio della ricerca, senza fornire ricette preconfezionate.
Quando gli confidavo le mie difficoltà, le mie ansie e le mie sofferenze di madre lui faceva luce, non dando precise indicazioni ma, richiamando momenti della vita di Maria e di Giuseppe, mi invitava ad un attento discernimento. Poi concludeva: “Ricorda che però è sempre Dio il primo a custodire i figli, tutto è nelle sue mani, dopo che noi abbiamo fatto tutto ciò che è in nostro potere”.
Ho scoperto in seguito di non avere sempre colto subito il significato delle sue parole, come quella volta in cui, guardando i viali del CEI dalla finestra di una sala dell’istituto, mi sembrò triste come non l’avevo mai visto e gli chiesi: “Stai male, p. Ardiri? ”, lui scosse il capo sorridendo e disse : “ No, è che penso che dovrò prepararmi a lasciare tutto questo”. Ed io pensai che si riferisse al trasferimento a Messina. Non pensavo allora che un giorno avrebbe potuto lasciarci per sempre.
Ma non lo penso neanche adesso che ci abbia lasciato; infatti, nelle varie circostanze della vita, mi sento accompagnata dal suo affetto, ripercorro mentalmente la profonda vastità del suo insegnamento, di parola e di vita, e sempre ritrovo un’indicazione, un orientamento, una frase che mi tornano provvidenziali e illuminanti.

Giuliana Prato

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