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Temi: La Spiritualità Ignaziana







mercoledì 18 agosto 2010

A Messina - F. CARDULLO:… p. Ardiri vive in me, lo penso e lo ringrazio, finché io stesso vivrò

Martedì mattina, del 22 gennaio 2008, appena ho appreso la notizia, sono andato all’Ignatianum: volevo vederlo per l’ultima volta, avevo la coscienza inquieta perché, malgrado lo avessi pensato, non ero riuscito ad andare a trovarlo durante le vacanze di Natale.
Quasi alla fine del largo corridoio, piuttosto buio, del secondo piano, sul lato destro, affacciata verso il mare, c’è la cameretta dove ha vissuto gli ultimi anni.
Oltre la camera una stanza piccola adibita a cappella, molto semplice, dove ascoltava la messa, quasi muto, ed io con lui quando mi capitava di andare a trovarlo.
Lì giaceva dentro la bara aperta, coperto da un velo trasparente, dalla testa ai piedi, in una inconsueta posizione rannicchiata. Gli occhi erano semiaperti, si vedevano le orbite, che luccicavano, brillavano quasi, e mi guardavano. Il volto scarnificato, il corpo piccolo e raccolto. Ho ascoltato la messa che padre Mangione, seduto in una sedia a rotelle, recitava a non più di cinque confratelli, tutti anziani e malandati. Sono convinto che la preghiera condivisa, guardandolo negli occhi, sia stato il migliore ultimo ricordo possibile. Verso la fine è arrivata la madre con altri parenti: nessun padre e nessuna madre dovrebbero sopravvivere ai propri figli.
Ho svolto tutta la mia formazione scolastica al Sant’Ignazio di Messina, dal 1958 al 1971. Ho conosciuto padre Ardiri durante questo periodo, quando tra il 1968 ed il 1973 è stato rettore del Collegio, credo l’ultimo rettore durante il periodo difficilissimo, immagino, della decisione di vendere e demolire, per sanare debiti dell’Ordine, un edificio, di qualità architettonica notevole su progetto di Antonio Zanca, ma anche un luogo simbolicamente molto significativo per la città di Messina.
Nel 1971 sono andato a Palermo a studiare, ed il Collegio nel frattempo lo demolivano dall’interno verso la facciata esterna, l’ultima ad essere abbattuta.
Gli anni della scuola sono stati ricchissimi per la mia formazione, i compagni erano solo maschi, e molti docenti padri gesuiti, e padri spirituali molti altri gesuiti, tutti differenti tra loro e ricchissimi nel personale contributo alla formazione, soprattutto spirituale.
Ma non padre Ardiri: non ho alcun ricordo da alunno, se non la severità ed il distacco del suo sguardo di allora, né di attività di insegnamento né di attività spirituale.
Non vorrei sbagliarmi ma credo che il suo magistero, da sempre, si esercitava nel dirigere senza clamori esteriorizzati e, in una seconda fase della sua vita, nel saper parlare al cuore di persone relativamente grandi; ma non a giovani di periodo scolastico.
Nel 1976 sono tornato a Messina e sono tornato al Sant’Ignazio, nel frattempo spostatosi all’Ignatianum, come docente di Disegno e Storia dell’Arte nel Liceo Scientifico, dove ho insegnato sino al 1998/1999. Ho reincontrato padre Ardiri nel 1992 quando fu nominato rettore dell’Ignatianum, come comunità che si occupa di varie attività, e come direttore della scuola Sant’Ignazio, lì trasferitasi; carica che ha ricoperto sino al 1995. Abbiamo incominciato a frequentarci e non ci siamo più lasciati.
Nel suo ruolo di rettore e direttore, anche questa volta, dirigeva, ma non insegnava né a scuola né all’Istituto Teologico, ciò malgrado la grande penuria di padri gesuiti che potessero dare identità all’Istituzione Collegio Sant’ignazio, che si declinava sia nell’insegnamento che nella formazione spirituale dei giovani. Ordine che a Messina, malgardo le gloriose origini cinquecentesche, va inesorabilmente scomparendo ed affievolendosi sempre più, non tanto come insegnamento, chè ancora continua, ma come formazione spirituale sì. Adesso dirò del suo magistero come direttore, ma credo che il suo grande magistero come educatore dell’anima fosse il tentativo di trasferire ad alcuni laici (in assenza di padri spirituali), e ho la presunzione di pensare a me in particolare, una formazione spirituale da trasmettere a mia volta ai giovani alunni della scuola, o in altri luoghi di lavoro ed insegnamento,come in effetti per me è avvenuto ed avviene. Missione che si è interrotta con la sua malattia e con il mio successivo allontanamento, non voluto, dalla frequentazione,mia e della mia numerosa famiglia, del Collegio.
Come rettore della casa e direttore del Collegio il suo lavoro si esplicitava in un impegno notevolissimo per rilanciare, o non far morire, per rivivere, o perseguire gli antichi fasti del Collegio Sant’Ignazio di Messina: prima della emorragia di confratelli e di studenti.
Si occupava di tutto, lavorava a tutto, pensava e progettava tutto: dagli aspetti strutturali, a quelli organizzativi, a quelli didattici, a quelli infine spirituali. Trovava in me una persona generosa, ma anche un architetto che non chiedeva nulla in cambio,e quindi a nostra volta generosamente ci tuffavamo in tutto.
Ho progettato per lui di tutto: da un padiglione di ingresso per Giovanni, il portiere, per migliorare gli accessi al recinto dell’Ignatianum; ad un palazzetto dello sport, per aumentare la dotazione di attrezzature sportive per gli alunni; da una nuova viabilità e sistemazione delle aiuole e della recinzione, per agevolare i flussi di auto e moto all’inizio ed alla fine delle lezioni; allo spostamento delle cucine della casa, dal piano terreno al terzo piano, per andare incontro alle difficoltà di mobilità di padri sempre più anziani; da un giardino per l’infanzia, che doveva accogliere i bambini più piccoli in un pezzo di terreno inutilizzato; ad una sorta di piccolo museo, nel matroneo della chiesa, che ospitasse e mostrasse i pezzi che si erano salvati dalla demolizione del Collegio di Piazza Cairoli; dal nuovo soggiorno panoramico con loggiato, a servizio dei padri con difficoltà di movimento; a nuove cappelle, al posto di camere sempre più vuote. Anche oltre i confini messinesi: una volta mi ha fatto andare a Palermo perché si voleva occupare di levare l’acqua dagli scantinati di Casa Professa, per farne un museo. Quasi nulla siamo riusciti a realizzare, spesso lo dovevo proteggere dai pescecani.
E poi l’organizzazione e l’allestimento della Fiera Missionaria, con teli che abbiamo fatto arrivare dalla Spagna; le funzioni della notte di Natale e quelle della notte di Pasqua, quando moltissimi alunni ed ex-alunni si stringevano attorno a noi e ritornavano ad incontrarci e abbracciarci.
Nei consigli di classe non è mai venuto, nella didattica non ha mai interferito, non mi ha mai raccomandato un alunno. Come era giusto che fosse si occupava e cercava di rendere sempre più bella la struttura e sempre più efficiente l’organizzazione di tutte le attività.
Ma soprattutto, sopra ad ogni altra cosa, si preoccupava della cura dell’anima, della base e del fondamento degli insegnamenti spirituali ignaziani, che solo in un secondo momento diventano cultura ed azione. Portò me ed un piccolissimo gruppetto di quattro persone, a fine agosto del 1993, a Castelgandolfo, nell’Oasi di Villa Sorriso, per partecipare a quella sorta di master motivazionale ignaziano che era il “Colloquium 1°”, e poi a dicembre dello stesso anno ad Altavilla, vicino Bagheria, per lo stesso motivo; partecipando insieme a padre Pavone ed ad altri docenti di Palermo, per tutto il 1994, ad una preparazione che portò alcuni di noi, ma non lui, a organizzare come tutor due “Colloquium” nel 1995.
Cura dell’anima che ha trovato una magistrale manifestazione ed espressione nella conduzione degli Esercizi Spirituali, nella particolare forma chiamata della “Vita corrente” o della “Vita ordinaria”, che hanno svolto un ruolo centrale negli ultimi anni della sua vita.
Il 30 settembre del 1993, nella sala di piano terra dell’Ignatianum, c’è stato il primo incontro di presentazione, quando addirittura eravamo tanti da doverci poi suddividere in tre gruppi; quando ci fa vedere un documentario di Folco Quilici sulla vita di Sant’Ignazio; sino all’ultimo del 6 maggio del 2001, che parlava di “Consolazioni e Desolazioni”, ad un solo sparuto gruppetto superstite di una decina di persone. Sono stati sette anni di esperienze spirituali, affrontati con grandissimo impegno a cui sono mancato una o due volte al massimo, che hanno significato una carpetta alta dieci centimetri piena zeppa di schede, immagini, fotografie, preghiere, cartoline, foglietti vergati con frasi e citazioni di santi o padri spirituali, tre quaderni fitti di appunti ed una solidissima, almeno spero, ossatura interiore che mi consente di vivere e operare, nel miglior modo possibile, alla ricerca del bene degli altri.
Nella formazione, da alunno, ed in seguito da adulto, nella curiosità di ascoltare altri padri che guidavano e guidano gruppi, ho partecipato a varie esperienze, ma queste di padre Ardiri mi sono sembrate le più giuste, le più vere.
Il gruppo era eterogeneo, e questo era un fatto direi fondamentale: sia per età che per cultura. Non eravamo tutti docenti, o professionisti, o laureati, o borghesi, o intellettuali: dalla anziana casalinga, alla vedova, all’impiegato, al maturo commerciante, al medico affermato, alla giovane scrittrice, alla divorziata, allo studente universitario, alla segretaria. Non costituivamo una specie di setta, come succede, a volte, in questo tipo di gruppi, per cui i riti e le funzioni sacre dell’anno si seguono soltanto con la guida spirituale, se lui non c’è, il nulla; al contrario, non abbiamo mai seguito come gruppo la messa o altre funzioni con padre Ardiri, ognuno aveva i suoi riferimenti consolidati altrove: la parrocchia, la chiesa più vicina, niente. Ci incontravamo ogni quattordici giorni, con il nostro compitino da svolgere durante le due settimane, cercando di scalare quella difficilissima montagna che è la fede in Dio, e la preghiera.
La preghiera, certo la preghiera. Durante l’incontro, ognuno ascoltava l’altro e le sue riflessioni sul tema ignaziano lanciato due settimane prima, e soprattutto ascoltava padre Ardiri e le sue risposte: sempre pacate, sempre col sorriso, sempre dolci, sempre piene di speranza ed ottimismo, mai ideologiche, mai sociologiche, mai pseudopsicologiche, mai intellettuali o pseudointellettuali, semplici, franche, serene, intrise solamente di preghiera e meditazione individuale. Ci sommergeva di foglietti o fotocopie o cartoline o immagini sacre con brevi frasi o con preghiere universali che distribuiva a tutti noi: orientali, occidentali, cristiane e non, di santi e di martiri, di uomini e di donne. Sempre azioni tese a cambiare in profondo se stessi, il proprio io, la propria anima, il proprio pensiero e poi, solo poi, l’azione ed il comportamento. Poche e misurate parole, mai comizi, mai lunghe prediche. Ci insegnava a pregare personalmente, sempre, tutti i giorni, in tutti i modi, anche in macchina mentre guidiamo, da soli. Ma anche con i figli, con leggerezza, senza alcuna pesantezza bigotta o devozionale.
Ci telefonava per l’onomastico, ci incontravamo in modo conviviale con delle piccole festicciole per farci gli auguri nelle grandi feste e dopo l’ultimo incontro prima dell’estate. Era sempre in movimento, infaticabile. È partito con tre gruppi, con tanta gente, poi ridotta ad un piccolo gruppo di una decina di persone. Ma non ha importanza, ha dato tutto se stesso e qualcosa ha sicuramente lasciato, a molti o pochi non ha importanza.
Era buono e generoso, e dava e chiedeva molto da chi capiva gli assomigliava.
Per telefono gli chiesi aiuto, per trovare ospitalità in una casa dello studente dei gesuiti, a Padova per il mio primogenito, capendo le mie difficoltà economiche di mantenimento di un figlio fuori sede si offrì di darmi del denaro, mensilmente, prelevandolo da quello che dava alle persone bisognose. Naturalmente, arrossii, per telefono, e gentilmente declinai l’offerta in favore di qualcun altro più bisognoso di me, ma mi colpì molto.
Alla data del 9 ottobre del 1993, secondo incontro del primo anno di esercizi trovo scritto nel mio quaderno di appunti: Motivazione degli Esercizi Spirituali: cercare la volontà di Dio, rendersi più libero; esperienza dello spirito e non esperienza culturale; sforzo della volontà e non della nostra personalità. Queste sono ancora, e spero per sempre, le motivazioni che mi spingono in ogni gesto della mia vita, e quindi di quello che faccio come padre, insegno come professore, agisco come uomo.
Quasi ogni mattina, quando ancora tutta la casa dorme, con poca o giusta luce, con il freddo od il caldo, mi seggo in una poltrona vicino alla vetrata, con un capitello di cemento accanto su cui è poggiata la Bibbia, od altri testi sacri, e leggo una pagina o poco più: in questo modo padre Ardiri vive in me, lo penso e lo ringrazio, finché io stesso vivrò.
Francesco Cardullo

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